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Naming aziendale, di prodotto o di brand: un’operazione non scontata.

  • Roberto Graziani
  • Gennaio 14, 2021
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Non esistono regole scritte per decidere il nome di una nuova attività, brand o prodotto, ma sicuramente occorre tenere in considerazioni alcuni fattori.

  1. Memorabilità
  2. Semplicità
  3. Posizionamento sul target
  4. Comunicatività

 

1) Memorabilità: è importante che un nome sia facilmente riconoscibile, pronunciabile e soprattutto memorizzabile. Da evitare quindi parole o sigle improbabili, meglio non lasciare dubbi su come scrivere o pronunciare il nome della nostra azienda o prodotto.

2) Semplicità: sta anche nella scelta di nomi non troppo lunghi o eccessivamente articolati.  Teniamo sempre presente che il nome sarà utilizzato anche sui social e negli indirizzi web e mail.

3) Posizionamento: parlare con il giusto linguaggio in funzione del target.
A chi ci rivolgiamo? Un pubblico giovane potrebbe apprezzare maggiormente l’uso dell’inglese e riferimenti culturali contemporanei, addirittura provocazioni (vedi il caso del marchio di abbigliamento A-Style, il cui logo ricorda, stilizzata, un’immagine erotica). Un target più adulto potrebbe essere invece più tradizionalista, da questo punto di vista.

4) Comunicatività: la vera sfida è raccontare una storia. Il nome dell’azienda o del brand è il nostro primo strumento di comunicazione, cerchiamo quindi di essere fin da qui evocativi, esaustivi ed intriganti. Proviamo a raccontare quanto più possibile il mondo dell’azienda o prodotto; attenzione però a non definire in maniera fin troppo netta i confini, quantomeno in quei casi che nel tempo potrebbero prevedere l’accesso a nuovi mercati. Sembra difficile inserire tutto questo in un semplice nome, ma in realtà rientrano in questo gioco anche le scelte stilistiche legate al lettering del logo, al colore e agli elementi grafici, che devono integrarsi alla perfezione nelle finalità comunicative.

Insomma, scegliere e “vestire” con la grafica il nome di un’attività o di un brand richiede uno studio attento e complesso.
Dopo un primo e liberatorio brainstorming, utile per mettere sul piatto quante più idee e spunti possibili, non bisogna tralasciare le necessarie verifiche sull’effettiva originalità, per non incappare in problemi di copyright. Inoltre confrontarsi con la concorrenza nello stesso mercato è utile per mettere meglio a fuoco la propria idea, provando allo stesso tempo a smarcarsi dai competitor.

Essere creativi con metodo, ricorrere al pensiero laterale per arrivare a nomi originali e intriganti.

Ogni settore ha i suoi codici consolidati (anche se le eccezioni non mancano mai).

Nel food abbondano gli esempi di naming che evocano un valore del prodotto: naturalità e genuinità (Mulino Bianco), artigianalità rassicurante (Giovanni Rana, Francesco Amadori), tradizione e tipicità (Pummarò), caratteristiche nutrizionali specifiche (Vitasnella, Misura, Linea).

Sempre nel food, per raccontare da subito qualcosa del prodotto, si punta spesso sui neologismi (Frùttolo), oppure su nomi che sono in realtà aggettivi (Teneroni), o ancora su sincrasi tra i nomi degli ingredienti principali (Mayò).

L’alta moda punta da sempre sul cognome dello stilista come brand.

Ci sono poi scelte di campo, nei naming “seriali”, che possono essere connotanti per un’azienda produttrice. Ad esempio alcune case automobilistiche scelgono di puntare, per anni, solo su sigle numeriche, altre invece su nomi più  “figurativi”, spesso collegati tra loro da un tema comune (Fiorino, Ducato, Talento; Vento, Bora, Scirocco).

 

Attenzione all'”effetto travisata”.

Ci sono rischi non sempre facili da prevedere, soprattutto se ci si muove in ambito internazionale: sono tanti i possibili significati sconvenienti o imbarazzanti che un nome può assumere in un paese straniero (di solito per assonanza con parole volgari, magari in qualche poco noto slang locale). Esistono varie case-history, anche di marchi eccellenti, che ci parlano di naming sbagliati partendo dalle migliori intenzioni. Qualche esempio?

Esteé Lauder: il fondotinta Country Mist fu lanciato forse con l’intento di evocare immagini bucoliche… ma in Germania anche troppo, visto che da quelle parti Mist significa “letame”. Il prodotto è comunque rimasto in commercio senza cambiare nome.

Ikea: il colosso svedese ci ha sempre abituati ai suoi tipici ma anche enigmatici nomi nordici. il carrello Fartfull può però prosaicamente significare, in inglese, qualcosa tipo “pieno di puzzette”.

SurfaceSoft: la Software House, per dare un nome alla sua calcolatrice grafica per Windows 8, coniò Inkulator, infelice fusione tra le parole ink e calculator, che in italiano si commenta da sola. Microsoft provvide poi a cambiare nel forse non bello, ma certo meno ambiguo, Kanakku.

Mitsubishi: problemi in America Latina al momento del lancio del nuovo fuoristrada Pajero 4×4, visto che in molti slang locali il nome suona come “persona che pratica autoerotismo”.

Apple: ebbene sì, anche i maghi di Cupertino non sono immuni a passi falsi in questo campo. Al momento del lancio del nuovo prodotto iPad fu fatto presente da qualcuno che pad indica anche l’assorbente intimo, con immediato fiorire in rete di meme ironici pubblicati dei tanti detrattori del marchio. Da notare, in questo caso, come Apple abbia scelto di procedere fieramente per la propria strada, peraltro con i clamorosi e ben noti esiti commerciali per il nuovo prodotto.

Sono solo alcuni esempi, anche perché la lista delle bucce di banana disseminate sul territorio del naming è molto lunga e ancora tutta da scoprire.

In conclusione…

Il naming è il primo passo nella definizione di stile e immagine dell’attività che si vuole intraprendere o di un prodotto che si vuole lanciare. La sua importanza non va trascurata e, come per tutti gli altri aspetti legati alla comunicazione visiva e al marketing, è consigliabile affidarsi all’assistenza di professionisti del settore, in grado di interpretare e tradurre in modo efficace i valori che hanno ispirato la nascita del nuovo prodotto.

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